Giulia Celenza, traduttrice e letterata italiana.


 Giulia Celenza, traduttrice e letterata italiana
di Filippo Marino
17.02.2017

Giulia Celenza (Vasto, 1882 – Firenze, 1933).
E’ stata una traduttrice e letterata italiana, la cui attività si concentrò sulla letteratura inglese (anglista).
Notevoli le sue versioni di William Shakespeare, Robert Louis Stevenson, Rudyard Kipling e Virginia Woolf.













Un profilo di Giulia Celenza a firma di Mario Praz è rinvenibile in William Shakespeare, Sogno di una notte di mezza estate, G. C. Sansoni Editore, Firenze, 1934, pp. V-X.








Giulia Celenza
di Mario Praz

I miei primi ricordi di Giulia Celenza son mescolati con quelli dei miei primi passi nella carriera delle lettere. 
Avevo tradotto la Laus Veneris dello Swinburne e gli amici dell'Istituto Britannico, a cui ne parlai, si mostrarono sorpresi che allo stesso tempo, in Firenze, due italiani si fossero entusiasmati di quel non comune poeta inglese al punto di volerlo tradurre in versi: cosi fui presentato alla traduttrice dell’Atalanta in Calydon. 
Giulia Celenza aveva fatto una profonda impressione leggendo in una delle causeries letterarie dell'Istituto Britannico organizzate dallo Spender, che allora ne era direttore, alcuni saggi della sua versione veramente alata - l'aggettivo trito non è qui fuor di proposito. 
La lodavano il Gargàno, il Ricci, Jack la Bolina.... presenti a quella riunione, ed ora anch'essi scomparsi, uno, Aldo Ricci, cosi prematuramente da riempirci l’animo d'un rammarico eguale a quello che ora abbiamo sentito per Giulia Celenza.
La traduttrice aveva rapito l'uditorio leggendo colla sua voce squillante - una voce che chi l'ha udita non può più dimenticare - i suoi scorrevolissimi endecasillabi, per non mancare quel porto, glorioso o soltanto tranquillo, che era nel destino d'ognuno. 
Ma lei, seppe lei vedere sempre il suo cammino? Quando io leggo le sue poche pagine di critica e d'interpretazione, come le introduttive all’Atalanta in Calydon, non posso non rimpiangere che Giulia Celenza abbia dedicato così poco dei suoi sforzi a opere più originali che non siano le traduzioni. Emilio Cecchi, che fu cortese ai consigli sia a me che alla Celenza nei nostri primi passi, mi scriveva nel 1922: “Io credo che Lei si consumi troppo nella traduzione: la traduzione non può nascere che da un momento di felicità nell'incontro di quel dato autore, in quel dato momento; estendendola un poco professionalmente, si possono fare ottime cose, ma a patto di non poter fare di meglio”.
Anche alla Celenza, la cui Atalanta il Cecchi trovava “di prim’ordine”, egli ripeteva quell'ammonimento: Perché tradurre quando si può far di meglio? E Giulia Celenza poteva fare, avrebbe fatto di meglio, se la vita le fosse bastata. 
Per l’ultima delle sue versioni, del Sogno d'una notte d'estate, aveva raccolto materiale per un commento e un’introduzione che sarebbero stati opera d'interpretazione notevolissima; e per quanto la versione sia delle più felici, non si può non rimpiangere che le note della traduttrice non siano lì a mostrare il sottile lavoro di discriminazione che le aveva fatto preferire un senso a un altro, una ad un altra lezione. 
Che se Giulia Celenza aveva felicità prodigiosa di ricreare in verso i capolavori altrui, non è da credere che ignorasse la fatica della lima; era, anzi, difficilissima e spietata critica di se stessa, e finché I’orecchio non era pienamente soddisfatto, non lasciava in pace un suo verso. 
Quanto si affaticò a rendere i giochi di parole del Midsummer Night's Dream! 
Poco prima della malattia fatale, mi comunicava le sue esitazioni e i suoi tentativi, e con quanta gioia vidi accolto da lei un mio suggerimento per rendere un difficile passo: «most brisky juvenal and eke most lovely Jew» / Dico gioia, perché superare, sia pure una volta, Giulia Celenza in invenzioni ingegnose per vincere una difficoltà di testo, era tutt'altro che impresa facile. 
E, per fare di questo mio rapido profilo cosa veramente aderente alla realtà, dirò pure che se un difetto poteva apporsi alla Celenza era, talvolta, una eccessiva sottigliezza, una ingegnosità che le faceva vedere nelle cose più aspetti di quanti esse non comportassero. 
Ma forse quest'abito dubitativo, che contrastava così singolarmente col suo naturale impulso, che era rettilineo e cordiale, quest'abito dubitativo e un po’ sospettoso era ingenerato in lei dalla vita solitaria. 
Che, insomma, alla sua anima ardente non poteva bastare l’affetto di qualche amica e il vecchissimo padre era come un un'ombra di lei, un'ombra che, appena ella scomparve, pure è svanita, come se da lei sola ricevesse vita e respiro. 
Ella era sola, e il pensiero non doveva darle tregua, a momenti. 
E allora, talvolta, tutto quel mondo che attorniava lei, donna di forte cuore, ma donna e debole, infine, doveva opprimerla, doveva riempirle l'animo di sospetto e di ansia. 
Ricordo una volta, in una riunione d'amici in casa mia, una frase che disse, come insorse contro l'opinione corrente che, quasi, per vedere completa una personalità di donna, la vuole circonfusa di romance, d'idillio; e lei, che, pur sola, si affermava donna forte e completa, si ribellava all’idea di questa menomazione. 
E a vederla cosi energicamente insorgere, con una fiera espressione che certo doveva risalire ai suoi antenati abruzzesi, pensai che sì, d'una menomazione ella soffriva, ma non di quella contro cui insorgeva. 
Soffriva di non aver avuto una causa veramente grande da sposare, forse una religione da infondere nelle anime altrui; soffriva del suo destino di guidatrice, forse di santa, che le era rimasto infecondo nel petto; e tutto quell'ardore lo aveva sfogato, e come elegantemente! nel rifare italiani i versi altrui. Troppo poco per un'anima che certo era più vasta.

Mario Praz, Firenze, 21 dicembre 1933.

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